Diritti lgbt e lavoro, l’uguaglianza in azienda passa dal colloquio

Diritti lgbt e lavoro, l’uguaglianza in azienda passa dal colloquio

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(foto: Getty Images)

Il mondo del lavoro è tuttora un terreno accidentato per i lavoratori della comunità lgbt. Lato aziende, sono ancora poche le realtà che hanno sviluppato un’attenzione puntuale sul tema della diversity. Lato persone, il colloquio continua a essere lo scoglio più grande, a causa di pregiudizie, ansie e impreparazione del reclutatore.

La selezione

Il colloquio è il primo momento della verità, durante il quale la persona comprende se l’azienda sia o meno inclusiva”, precisa Andrea Notarnicola Cociani di Partner Newton, società di selezione del personale, a margine dell’evento Lgbt People at Work Business Forum, organizzato dall’associazione Parks, che riunisce aziende impegnate a valorizzare la comunità lgbt al loro interno.

Oggi le persone sono più autentiche nel far sapere il proprio orientamento sessuale. Raccontano di sé anche sui social media e quindi l’azienda che va a cercare informazioni del candidato su queste piattaforme può già capire. Le strategie di un tempo “don’t ask, don’t tell”, ma anche nascondere in colloquio l’orientamento e svelarlo una volta assunti, oggi non sono vincenti. Le persone vogliono essere autentiche fin dall’inizio: è un trend generazionale, i giovani stanno spingendo su questo valore”, aggiunge.

È però vero che tutt’oggi stereotipi inconsapevoli o non, possono portare le aziende a non convocare ai colloqui persone lgbt, oppure a convocarle ma poi scartarle per aspetti non rilevanti o in un secondo colloquio.

I temi che rappresentano ragione di timore per le persone lgbtq in fase di colloquio sono la paura di essere scartati, ma anche di essere collocati in una funzione diversa rispetto a quella che aspirano. “Capita che nella visione dell’azienda, se uno è gay meglio metterlo a fare comunicazione. Ci sono stereotipi legati al ruolo”, prosegue Cociani. In ogni caso è un momento che genera tensione. E aggiunge: “Il risultato è che spesso le persone lgbt scelgono ancora oggi percorsi imprenditoriali. Preferiscono aprire una propria azienda e optare per strade professionali dove non è previsto una selezione”.

Il valore dell’autenticità

Racconta Cociani che “in alcune aziende le persone lgbt raggiungono il 14% della popolazione. Il tema è capire come, quanto il percorso sia avvenuto in maniera nascosta. Paradossalmente in un’era in cui non si chiedeva nulla, era più facile entrare in azienda. Oggi l’autenticità è un’opportunità e una grande risorsa ma mette le imprese davanti a una responsabilità. Cioè la reale inclusione: non ti includo perchè non so niente di te. Ti includo perché so chi sei e voglio te”.

Le grandi aziene strutturate sono più avanti nel percorso verso l’inclusione. Spiega Cociani che “in Italia il lavoro da fare è quello sulle pmi, soprattutto sulla formazione di coloro che si occupano di selezione, anche capi, perché siano più consapevoli”.

Come siamo messi in Italia

L’associazione Parks nel 2018 ha sottoposto a 61 aziende e istituzioni che operano in Italia un questionario che rileva a che punto siano sui temi di inclusione. Ne è emerso che il 64% ha una politica aziendale di non discriminazione che è stata formalizzata, e che abbraccia sia l’orientamento sessuale che l’identità di genere. A fronte di un 10% che ancora non ha niente.

Quando poi si parla di transizione di genere il discorso si fa ancora più complesso. Il 66% delle aziende non possiede linee guida di alcun tipo e solo il 23% le possiede e le ha anche formalizzate.
Addirittura, si scopre che nemmeno la metà delle realtà coinvolte fa formazione ai dipendenti sulla diversità legata ai temi lgbt (46%).

Un gioco aziendale per sensibilizzare

All’interno delle realtà imprenditoriali è anche difficile capire quale sia il reale grado di conoscenza e sensibilità dei dipendenti sulla questione. E quali atteggiamenti invece non siano frutto di luoghi comuni e di comportamenti socialmente ritenuti doverosi. Per “smascherare” la realtà dei fatti e rendere consapevole il singolo sul proprio grado di maturità sul tema, alcune aziende hanno deciso di investire in un videogame.

Si chiama diversity@work ed è stato lanciato lo scorso febbraio dalla sturtup Work wide women, che dal 2015 si occupa di diversità e inclusione in modo innovativo. “Negli anni abbiamo notato che le aziende trattano in modo pesante questi argomenti, così abbiamo pensato a un gioco – spiega Linda Serra, fondatrice di Work wide women – Sviluppiamo progetti corporate per affiancare le aziende in percorsi formativi innovativi di diversity management”.

Il videogame è basato su un gioco di carte in cui il player verifica le proprie reazioni di fronte a situazioni dove può accadere di essere guidati da automatismi e stereotipi. Non si tratta di una valutazione o di un test. L’obiettivo è far emergere le dinamiche discriminatorie implicite, favorendo così l’adozione di comportamenti inclusivi.

diversity@work (crediti: World wide women)

Al giocatore si presentano una serie di domande che hanno due opzioni di risposta ciascuna. Sono case history vere, storie realmente successe ad alcune persone sul luogo di lavoro. Clicca su quella che ritene essere la migliore risposta e più in linea con le proprie idee di diversità. A seconda che la risposta sia corretta o meno, il gioco segnala quanto impattano i comportamenti personali in un contesto lavorativo.

Puntiamo alla sensibilizzazione. In modo che al di fuori del gioco, la persona si ricordi le risposte date”, conclude Serra. “L’azienda invece ottiene i dati aggregati anonimi dei risultati del gioco e capisce la situazione che esiste tra le risorse e come eventualmente aggiustare il tiro”.

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